CORRIERE DELLA SERA

di GIAN ANTONIO STELLA

"Essere straordina rio, le nostre lin gue non hanno parole come de finirti; i nostri cuori non hanno espressioni come attestarti la nostra ammirazione. Un popolo intero ti acclama: Liberatore della più bella parte d'ltalia!". L'«lndiriz zo del popolo di Lungro», scritto con un'abbondanza , di punti esclamativi pari al barocco entusiasmo, non arrivò mai tra le mani di Garibaldi. Sul più bello , che era alle porte di Castrovillari, infatti, la trafe lata Commissione reduce da un viaggio interminabi le vide sbigottita la carroz za del Generale "che a punta di giorno si dilegua va attraverso i querceti che adombrano la strada consolare". 

L'"Eroe dei Due Mondi" così affettuosamente incensato nel messaggio mai ricevuto (testuale: "L' America può vantare un Washington, la Svizzera un Guglielmo Tell ma l'Italia, più superba ancora..." ) sapeva bene, però, quanto grande fosse il cuo re patriottico della gente di Lungro, paesotto cala brese in provincia di Co senza. Perché proprio da lì, da quello che grazie alla Eparchia è considerato la "capitale religiosa" degli "arbereshe", cioè gli alba nesi d'ltalia, venne forse il contributo più sentito, in percentuale, alla marcia garibaldina su Napoli. Cin quecento volontari su cin quemila abitanti. Tolti i vecchi, le donne e i bambini, praticamente un uomo su tre. 

L'episodio è ricordato, di striscio, in un piccolo e prezioso libro appena uscito. Si intitola Il tenente generale, è stato scritto da Giuseppe Martino, oggi presidente della Provincia di Catanzaro dopo aver fatto per anni il primario ortopedico, non ha troppe pretese letterarie ma dovrebbe essere letto in tutte le scuole. Come antidoto ai veleni del razzismo anti-albanese che, stando ai sondaggi, infettano i nostri ragazzi in questi tempi di gommoni albanesi, schiave albanesi, scafisti albanesi.

Racconta infatti la storia di Pier Domenico Damis, un giovane di Lungro formatosi alle idee liberali e risorgimentali nel Collegio Italo-Greco "Sant'Adriano" di San Demetrio Corone, culla della  intellighentzia albanese in Calabria, così

aperto sul mondo delle idee da venire assaltato nel 1799 dai contadini pseudo-sanfedisti e filo-borbonici sulla base di una precisa convinzione: "A Sant'Adriano pure Cristo è giacobino!".

Aveva 24 anni, Pier Domenico, quando Attilio ed Emilio Bandiera arrivarono nel 1844 a morire in Calabria inseguendo il loro sogno risorgimentale. E fu allora che fece la scelta cui avrebbe dedicato la vita. Lasciandosi coinvolgere nei fermenti irredentisti del '44 e poi del '47 fino a buttarsi a corpo morto nella mischia nel 1848. Punto di partenza di un'esistenza come poche altre avventurosa: tre anni di latitanza sulle montagne, la decisione di raggiungere il Piemonte, la cattura a casa di Maria (un donnone patriottico che all'arrivo dei gendarmi "allargando al massimo il "plisse scampanato" dell'ampia gonna rossa albanese, nascondeva il latitante facendolo accoccolare fra le poderose gambe" ), la condanna a morte emessa dalla Gran Corte Criminale.

Ci credeva davvero nell'Italia, il giovane Damis. E lo rivelano le lettere che inviò ai fratelli e alla madre dal penitenziario di Procida, dov'era stato rinchiuso dopo che la pena di morte gli era stata tramutata in 25 anni di carcere duro. Lettere bellissime del futuro ufficiale dell'Esercito Regio e futuro senatore, dove, tra parole impossibili oggi usate solo da Filippo Mancuso tipo "impreteribilmente"o "spesseggiare", emergeva un amore assoluto per questa patria di adozione in nome della quale lui e altre migliaia di albanesi ( al di là dell' "arbareshe" che parlavano in casa) erano pronti a morire. Ed ecco la prigionia con Poerio e Settembrini, l'imbarco verso l'esilio su un veliero che nelle intenzioni dei Borboni (i quali pagarono 9.000 colonnati promettendone altrettanti a missione compiuta) doveva scaricare i 66 patrioti il più lontano possibile nelle Americhe, il dirottamento della nave dovuto al figlio di Settembrini, lo sbarco in Inghilterra e da lì il viaggio a Torino e poi a Quarto

in tempo per partecipare alla leggendaria spedizione dei Mille. Sempre al fianco di Garibaldi fino alla battaglia del Volturno.

Sullo sfondo, sempre loro: gli albanesi d'Italia. Decine di migliaia di uomini e di donne concentrati un po' in tutte le regioni meridionali, dalle Puglie alla Sicilia ma soprattutto in 25 comuni calabresi, arrivati a ondate nel nostro (e loro) Paese molto prima che inventassero i gommoni. E cioè a partire dal 1461 (quando vennero a migliaia al seguito di Giorgio Castriota "Scanderbeg" accorso in aiuto di Ferdinando di Aragona) e più ancora dal 1468, dopo la morte del condottiero e la fine del suo sogno  di impedire ai turchi la conquista dell'Albania.

Italiani più italiani di tanti italiani. Innamorati di Giuseppe Garibaldi al punto di paragonarlo al loro eroe perduto (come in una poesia di Zep Serembe: "il grande prode in camicia rossa / eguaglia il nostro Scanderbeg / perche quando con fierezza  impugna la spada / quale folgore brucia e squarcia" ) e di seguirlo a migliaia nella marcia da Marsala verso Napoli. Una dedizione assoluta, nonostante l'antico adagio: "se i calabresi nei confronti degli italiani si sentono gobbi, gli albanesi di gobbe se ne sentono due". Una passione piena testimoniata non solo dalle origini di Francesco Crispi, albanese di Sicilia, ma dalla storia di molti altri protagonisti del Risorgimento.

Come Agesilao Milano, il ragazzo che nel 1856 fu ucciso dopo aver ficcato nel corpo di Ferdinando II un colpo di baionetta che avrebbe minato per sempre la salute del re di Napoli. O Girolamo De Rada che, pur essendo nato e cresciuto in Calabria e pur avendo combattuto per l'Unità d'Italia, è considerato il più grande dei poeti albanesi. O ancora Raffaele Camodeca, un ragazzo di buona famiglia unitosi all'impresa dei fratelli Bandiera e ricordato in un vetusto volume di Serafino Groppa come "un giovine eroe il quale a ventiquattro anni, quando più gli sorrideva la vita, cadde vittima del piombo esecrando nel Vallone di Rovito! Morì gridando: "E' questo il più felice momento della mia vita! Viva l'Italia!".