Signore e signori,

          Consentite che io mi auto presenti con quattro parole. Sono un calabro-albanese della provincia di Cosenza e precisamente di Lungro, metropoli degli albanesi d'Italia e sede del vescovato di rito greco-unito, per le colonie al di qua del faro.

          Lungro è un pò conosciuto anche perché Domine Dio, nella sua eccelsa bontà, volle concederle nei pressi, una miniera di salgemma vastissima che lo stato gestisce, estraendone annualmente intorno a centomila quintali.

          Per un privilegio avito quel sale puro rimane in Calabria e giunge ad insaporire le vivande dei buongustai d'Italia solo sotto forma di sale raffinato assai costoso.

          Poiché la Salina, dando lavoro a un mezzo migliaio tra operai e impiegati, assicura alla cittadinanza lungrese un relativo benessere, gli abitanti dei paesi vicini - invidiando - malignano che Domine Dio, nella sua eccelsa giustizia, per contrappesare il concesso beneficio, avareggia il sale nelle zucche dei gaudenti lungresi.

          Purtroppo io sono un Lungrese e dunque ho bisogno del vostro benevole compatimento se questa sera non riuscirò a darvi quella prosa scintillante che altri conferenzieri vi han data da questo difficile posto e che voi avreste tutto il diritto di pretendere dalla mia audacia.

          Vogliate poi indulgere anche per questo; parlando degli Albanesi, io, albanese, non potrò non sopravvalutare. A voi il dedurre.

          Chiunque - storico, o conferenziere e giornalista - se imprenda a narrare fatti che lo interessano intimamente, non può non colorire di sé, della sua passione quei fatti e la valutazione di essi che se egli si affretta a promettere, a sacramentare che sarà sereno e freddo come un biologo (rubo la frase ad un illustre padre Zappata, il Taine) il quale, preso tra le pinze un insetto, si accinge a farne la descrizione, ebbene, o egli ingenuamente si inganna, o mira ad ingannare, sdoganando la merce sotto la mentita bandiera.

          E' ben vero che, a parlare con entusiasmo degli skipetari, io mi trovo in ottima compagnia.

          Altri, lontani da me per tempo, per stirpe come per statura intellettuale, mi hanno preceduto con concorde frase commossa.

          Ricordo uno per tutti: il Lamartine, il quale, con l'amplificazione spettacolosa del poeta, non però senza fondamento,

ebbe a scrivere:

 "Albania! Grande piccola nazione! Omero vi trovò Achille; la Grecia, Alessandro; i due grandi sultani, Amurad II e Maometto II, il fortissimo  Scanderbegh: tre eroi nelle cui vene pulsava il medesimo sangue, sangue albanese".

          Due anni fa i giornali annunziarono la presenza in Roma di due giovani in viaggio di nozze, dopo aver solennizzato il rito in una moschea a Tirana: lui il principe Arbib, figlio dell'ultimo sultano turco, lei la principessa Penije, sorella del re Zogu I d'Albania.

          La notizietta passò presso che inosservata ai più in questa Roma, dove principi della scienza, delle lettere e delle arti ed alti dignitari politici e religiosi, non che re di corona, pur ieri in auge, passano ammiranti ed inosservati.

          Ben la notammo noi, oriundi albanesi, italianissimi ormai nell'animo, ma non immemori della gloria, dei travagli e di tutto quanto ha attinenza coi nostri fratelli d'oltre adriatico.

          E se n'ebbero due impressioni. I cattolici, rigidi, intolleranti, pensarono che i resti di Scanderbegh - il difensore irriducibile della croce - avean dovuto fremere nella loro tomba. Non così altri che, con più larga comprensione storica, pensarono agli effetti immancabili di una sapiente penetrazione dei Turchi nei villaggi dell'Albania, sapiente se si ricorda che Maometto II, conquistatore di razza, instaurò nelle terre invase, la più larga tolleranza in materia religiosa. Mantenne infatti in funzione i sacerdoti ortodossi, facendo eleggere (1) un nuovo patriarca in Costantinopoli, constatata l'irreperibilità del primo. Fu così che, non più di un secolo dopo, fu impossibile il matrimonio di una pronipote di Scanderbegh col figlio di Maometto III!

          Sola restrizione per gli assoggettati cristiani: dover pagare un tributo speciale e non poter fare carriera nelle gerarchie militari e civili.

          Politica avveduta che fece entrare in funzione il determinismo economico il quale opera anche su coloro che si ostinano a negarlo.

          Così, a lungo andare, si verificò l'inevitabile: la completa accessione.

          Ma va gridato alto e forte che, comunque, gli Albanesi tutti, rivolti alla croce od alla mezza luna, tennero sempre viva la fiamma patriottica, mirante alla riconquista della indipendenza. Essi sono oggi tutti con l'animo proteso verso la civiltà occidentale e più precisamente verso l'Italia che, in un momento di grande ansia per gli Skipetari, ai quali si minacciava la spartizione, protese il braccio vigoroso attraverso l'Adriatico: e l'indipendenza dell'Albania fu instaurata, annuente la Turchia, ragionevolmente orientato.

          Le vicende del tempo consentono avvicinamenti che solo chi vive nel bozzolo delle tradizioni inviolate non comprende e non giustifica.

          La storia ha le esigenze, e prescinde dai nostri programmi, poiché c'è molto di vero nel paradosso di Antonio Labriola che, cioè, con noi diamo vita alla storia, ma siamo invece vissuti dalla storia con le sue leggi.

          Nel secolo delle onde corte, della televisione, delle fonofilms e delle flotte aeree trasvolanti in rotta presegnata sopra oceani e deserti ed alte catene d'inviolati monti, la Turchia, redente da ordinamenti liberi, è già entrata in gara con le nazioni evolute per la ognor più rapida e sicura conquista e diffusione della civiltà, per lo sfruttamento delle resistenti forze brute, in pro del razionale benessere comune: in questo secolo, in questa situazione storica è bene anacronistico l'attardarsi ancora intorno all'aspro tormento in cui all'inizio dell'evo moderno sono vissute le nazioni europee, terrorizzate dall'avanzarsi ruinoso delle orde  musulmane. L'immaginazione dei cristiani terrorizzati rese possibile nel 1456 un fenomeno di suggestione collettiva che non sarebbe creduto se non fosse registrato  nelle cronache del tempo, che cioè, dietro l'apparsa cometa di Halley, si vedesse da tutti, invece della solita innocua coda, la forma di una minacciosa scimitarra turca. Fenomeno di suggestione collettiva. Intanto solenni processioni, ordinate dal Papa Callisto III e la Bolla per la squilla della Campana al mezzogiorno.

          Nostro intento dunque non è quello di annoiarvi con la narrazione a freddo degli orrori di una sequela di guerre, i cui motivi possono ritenersi oramai superati.

          Vogliamo soltanto rilevare, a titolo di doverosa giustizia, le fasi della resistenza eroica efficacissima di un gran capitano di quel tempo assai travagliato ( seconda metà del XV secolo ), di un capitano il quale, manovrando a capo di poche migliaia di connazionali albanesi, con sagacia geniale ed inaudito coraggio, fermò da solo, al cospetto dei coronati scettici e tremebondi d'Europa, la marcia degli sterminati eserciti ognora rinnovantisi di due grandi sultani: Amurat II e Maometto II.

          Un quarto di secolo di travaglio, ventidue battaglie tutte vinte dal grande Albanese: ecco il fondo di un poema.

          Questo gran capitano il quale fu leggenda prima che morto, ed è esaltato come Dio endigete degli Albanesi.

                 Giorgio Kastriota Skanderbegh del quale, con animo commosso di Albanese, se pure con forze impari all'argomento, io mi accingo a parlarvi questa sera.

          Cominciamo con lo stabilire che Egli non era niente affatto re dell'Albania, per la semplice ragione che l'Albania - o Schiperia - regione montuosa, impervia, da un crinale all'altro, era abitata da plessi di popolo fieri della loro indipendenza, ma male disposti a sopportare, in comune, un unico capo con legge unica.

          All'approssimarsi dei turchi - secolo XV - le diverse comunità confluivano verso un ordinamento di tipo gallico, senza, cioè il capestro dell'investitura da parte del Gran Signore o della Curia.

          Molta influenza da parte di tre famiglie: Tocco, Thopia-Commeno Castriota.

          Estranee ed anche gelose l'una verso l'altra, queste tre famiglie, erano fiancheggiate da quelle dei feudatari minori.

          Uno il pensiero vibrante in tutti: non farsi rapire l'indipendenza politica e religiosa: imperioso bisogno naturale nei popoli sopra tutto che respirano le libere aure delle impervie montagne.

          Per resistere al gruppo compressore arabo-turco, i popoli balcanici dall'Ungheria in giù, in prima linea gli Albanesi, unitisi in lega, si prepararono, nell'inizio del quindicesimo secolo, ad uno sforzo vigoroso che svogliasse il Sultano, avido di dominio, dal procedere nella sua marcia verso il nord.

          Se non che lo scontro riuscì - poiché i Turchi erano nel ramo ascendente della parabola - sfortunato assai per i cristiani, i quali furono sconfitti a Cassovia (1413). I vinti, piccoli popoli, furono sottoposti a gravi tributi e Giovanni Castriota - padre del nostro eroe - come attivo promotore della Lega ed oppositore irriducibile, fu sottoposto a sanzione dura.

           Il sultano Maometto I, il fortunato vincitore, pretese dal Castriota, oltre un forte tributo, la consegna dei quattro figli: Reposio, Giorgio, Stanisa e Costantino.

                   Segreto intento del Sultano era questo:  sopprimere col tempo i quattro figli ed alla morte dello sfortunato padre loro, compiere l’annessione pura e semplice del principato dei Castriota, come già di quelli degli altri principi limitrofi.

                   Lo sfortunato principe non tardò a morire e Maometto I stabilì subito un forte presidio a Croia, la povera capitale disgraziata del principato soppresso.

         Dei quattro  figli, Reposio, Stanisa e Costantino furono fatti morire di veleno uno dopo l’altro.

                  Campò solo Giorgio, non - bene inteso - per bontà generosa del feroce nuovo sultano, il quale procedeva rigido e duro nell’attuazione del suo piano politico. Amurad II aveva ragione di temere anzi più che non gli altri, già soppressi, quel giovane assai valido. Ma peroravano per lui, per Giorgio Castriota, le sue stesse alte qualità.

          Pieno d’ingegno e prestantissimo di corpo e di animo, Giorgio, che era stato arruolato per tempo, s’era dimostrato subito in possesso di tutti i numeri per salire ad utile capitano.

         Ben presto, infatti, fu assunto a Sangiacco, comandante di oltre cinquemila combattenti. La sua presenza torreggiante al campo infondeva il coraggio anche ai timidi e decideva, quasi sempre - parve miracolo -, della vittoria.

In Asia, durante la guerra di repressione contro Tamerlano, s’era tanto segnalato da diventare l’idolo dei soldati: furono essi che lo soprannominarono Scanderbegh (Alessandro-signore).

         Si capisce  subito  come  il Sultano, in  continua guerra, non potesse desiderare la sparizione di un così formidabile condottiero, sul quale anzi contava appunto pel buon esito della lunga serie di guerre da lui previste, così per l’espansione, come per l’assestamento del suo Impero.

          Lo Skanderbegh, al suo ritorno in Europa, dovette comprimere i sussulti dell’animo trambasciato, in attesa degli eventi da utilizzare per vendicare i suoi e riconquistare la libertà politica e religiosa ai connazionali oppressi, che lui guardava sospirando.

         Lo eccitava, dice il De Rada, illustre glottologo e poeta albanese, -“zonja mëm piak, me shertime”- la signora madre vecchia e sospirosa.

         Gli eventi maturarono rapidi.

 

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         Ladislao, re d’Ungheria ed Uniade Corvino, gran vaivodo di Transilvania, fiancheggiati dai popoli finitimi, mossero incontro all’avanzante esercito del Sultano nel 1443, innalzando a vessillo la Croce. Veniva incontro a loro Koran Pascià. In retroguardia, obbligato a marciare anche il Sangiacco, Giorgio Scanderbegh.

         Rapida risoluzione.

         Ad un certo punto lo Scanderbegh si apparta con i più fedeli seguaci, sequestra il segretario del Sultano ( che seguiva l’esercito con i sigilli imperiali ) e l’obbligava a redigere un firmano diretto al Governatore di Croia, per la consegna del castello e l’immediata trasmissione dei poteri al nipote di Scanderbegh, Hamza, latore del firmano.

         L’operazione non fu aliena dal sangue; ma è la guerra.

         Il giorno seguente giunge sul posto lo stesso Scanderbegh il quale spazza rapido la guarnigione mussulmana, gjak ulku, sangue di lupo, ed issa la bandiera avita coll’aquila nera in campo rosso e lo scudo crociato - contro il potentissimo tiranno della Mezzaluna.

Traditore del sultano?  E’ la guerra anche qui ed il Sultano v’era dentro - e dentro il tradimento - da parecchio con la sopraffazione ed i metodici avvelenamenti.

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Occorreva  intanto  organizzare  in  modo  congruo  la   resistenza alla spedizione punitiva  che si sarebbe presto sferrata contro il ribelle.

Quale fatica immane convogliare le volontà discordi dei capi albanesi asserviti, in combutta o tremebondi.

Solo lo Scanderbegh, fidando nel proprio grande scendente, poteva tentare questa prova con la speranza di poterla superare.

Con mossa fulminea e sicura, egli indisse un convegno, in Alassio, tra i rappresentanti autorevoli delle svariate comunità. In quel convegno egli parlò concitato, eloquente, animatore. D’incanto tacquero le dubitazioni e tacquero le misere scambievoli animosità per gelosia.

Si decisero concordemente gli obblighi di sovvenzione in uomini e in danaro, e si gridò con entusiasmo e gran fede a capitano generale Skanderbegh, il quale versò subito nella Cassa Comune la dote cospicua che gli portava la sposa Domenica Thopa-Comneno.

In breve tempo l’infaticabile eroe, presenziando dappertutto e infondendo in tutti il suo leonino coraggio, mise insieme - che parve miracolo - quindici mila uomini: pochi per fronteggiare per fronteggiare le grandi masse che l’esasperato Sultano avrebbe spedite ma virtualmente molti perché grandissima era la fede nella giustizia della causa e nel valore del Capitano.

Infatti Scanderbegh fronteggiò con meravigliosa sicurezza gli eserciti mussulmani, li sgominò e li sconfisse puntualmente, ripetutamente.

E non aiuti dal papa, non dagli altri stati cristiani. Sola eccezione Alfonso d’Aragona, il quale però da Napoli non inviò che 1.500 uomini.

Se non che a tutto suppliva l’Eroe con la genialità sagace dei piani, con l’inesauribile fortilità istantanea degli espedienti.

Lo coadiuvavano come ufficiali di fiducia: Hamza, figlio del fratello Reposio; Mosè Thopia, figlio della sorella Angela; Giorgio Stresio, figlio della sorella Giela.

 

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Amurad II, sbrigatosi degli ungheresi, dopo la vittoria di Varna, ordinò una nuova spedizione contro i ribelli Albanesi che credeva di poter risottomettere rapidamente. Se non che dovette ricredersi.

Da gran tattico, Scanderbegh riuscì sempre ad attirare i superbi pascià, coi loro pesanti eserciti, in posizioni per lui vantaggiose, e li battè sempre clamorosamente.

Ci asteniamo,  per ragioni ovvie,  dal scendere ai particolari, fissati in documenti ufficiali.

La genialità delle mosse è dimostrata dagli effetti clamorosi.

         Lo stesso Amurad II, avendo constatato che i suoi più famosi generali erano stati puntualmente battuti l’uno dopo l’altro, pensò di muovere lui stesso in persona con più numeroso esercito all’assedio della minuscola Croja.

                                                       Ma nulla.

E dovette, mortificato, chiedere - lui !- la tregua che fu stabilita per un anno, prima, e poi rinnovata.

Scanderbegh ne approfittò per accorrere in aiuto a Ferdinando II di Napoli, contrastato nella successione da un Angioino, fiancheggiato dal principe Giovanni di Taranto. Già un anno prima il nipote di Scanderbegh, Stresio, con un contingente di albanesi era passato nel napoletano.

         Proteste, congiure, proposte lusinghiere da parte del Principe di Taranto allo Scanderbegh: “Spectabilis Magnifici et strenue vir, amise noster marissime”.

         Risposta pronta, netta e  dignitosa, e sbarco del  Castriota con nove mila albanesi splendidamente collaudati dalla guerra contro il turco.

L’esercito di  parte  angioina, del  quale,   com’era  stabilito,   doveva assumere il comando Piccinino, avea di già il sopravvento e al giungere del principe albanese, lo stesso Ferdinando trovavasi assediato in Barletta.

Il principe di Taranto ripiglia la penna. Non più le lusinghe precorse. Esaltato dai successi, scrive: “Giovanni principe di Taranto a Giorgio Kastriota Skanderbegh salute”. E il principe pieno di albagia, continua: “Tu ti vanti di essere fortissimo guerriero della cristiana religione e niente di meno proseguisci quella gente che con ogni ragione……Tu hai rivolto il ferro contro i francesi, dei quali è il regno di Sicilia. Hai mai pensato forse contro gli effeminati turchi e contro gli imbelli greci prendere la pugna, dei quali sei solito ferire le spalle; altri uomini troverai quantunque supportino il tuo fiero aspetto; nessuno fuggirà il tuo viso…..gente vile…..pecore! Non troveresti impresso s’avessi possuto dimorare in casa tua: l’impeto dei turchi, e non avendo possuto difendere la tua casa, hai pensato d’invadere l’altrui; ti sei ingannato, eccetto se per caso ricerchi il tuo sepolcro”.

La lunga invenie del principe oltremontano, che chiama casa sua l’Italia, traduce il presentimento amarognolo della temuta imminente sconfitta.

Lo Skanderbegh rimbecca pronto. Niente saluto iniziale: “Havendo io fatto tregua con lo inimico della mia religione, non ho voluto che il mio amico restasse fraudato del mio agiuto. Spesse volte Alfonso, suo padre, mi soccorse in uomini e vettovaglie, mentre io guerreggiavo contro i turchi”. E continua: “ Da dove ti viene questa autorità?….Io sono venuto in aiuto di Ferrante, figliuolo del re della sede Apostolica, sono venuto avversario della tua infedeltà e degli innumerabili tradimenti ai grandi di questo regno”.

E all’Angioino che con gallica burbanza gli contrapponeva la nobiltà secolare del casato rispondeva, concludendo la lettera: “Si mutano li costumi e i Re all’aratro ritornano; né troverai nobiltà più antica che la virtù”.

Conclusione.

Gli Angioini furono prontamente e definitivamente sgominati ad Orsana di Puglia, nelle vicinanze di Troya, e Ferdinando fu liberato e consolidato nel trono.

Grandi onori e feudi al principe liberatore.

Morto Amurad II°, gli era successo Maometto II° che poco tempo dopo doveva espugnare Costantinopoli: E da Costantinopoli ad evento compiuto, egli scriveva al caro Giorgio con dolce stile per rabbonirlo: “…..ci siamo cresciuti insieme…..Domando libero il passaggio per guerreggiare contro i Veneziani. Intanto rinnoviamo la tregua”.

Risposta di Skanderbegh: “Tregua si, ma niente passaggio in danno della serenissima”.

Nel 1464 Croja  è riassediata e Maometto II° dal campo scrive con grande esasperazione a Turkin Pascià, governatore di Costantinopoli: “ Tutti i miei generali sono stati battuti, le mie armate umiliate fino a dovermi muovere io stesso alla testa dei miei giannizzeri.”.

E in altra lettera successiva: “Io sono nella disperazione per non essere riuscito nell’assedio di questa piccola capitale dell’Albania.  (Eran bastate sette settimane di assedio per Costantinopoli e in venti anni non si era riuscita ad espugnare la piccola Croja!). Tutti gli assalti  –prosegue Maometto- dati a questa piazza, difesa da quel leone di Skanderbegh, non mi hanno prodotto che la perdita dei più scelti ufficiali e di ventimila uomini che compiango.”

Nel 1465 la resistenza si contava a decenni e l’assedio fu dovuto levare.

Lo Skanderbegh ne approfittò per riallacciare fra loro i componenti della Lega, tra cui non mancavano gli stanchi, i trepidi ed anche i disposti alla fellonia, da sorvegliare.

Se egli avea potuto durare nella immane epica lotta era stato perché i forti montanari, alieni da malsane ambizioni, seguivano, volenti pure i feudatari, con fiducia ed ardore, il prodigioso eroe.

Questi poi non solo sapea mettere in meravigliosa potenza le masse che lo seguivano, ma valea da solo, per il terrore che infondeva con la sua torreggiante presenza nell’animo dei turchi (si scrisse averne egli ucciso non meno di duemila), l’apporto di moltissimi combattenti.

Il duplice ricorrente trionfo sulle insidie dei feudatari che l’attorniavano e sui nemici esterni lo eleva ancora più alto sul piedistallo - se è vero che l’acciaro dell’anima, nell’eroe, è saggiato dai forti ostacoli che gli si adergono contro e sui quali egli,  se vale davvero –fede e forza- deve sapere trionfare.

Anche lui, il nostro eroe, come cinque secoli dopo Giuseppe Mazzini, aveva esclamato nell’ansito del travaglio: “ Non un amico che non mi abbia tradito”.

Ma che importa quando si è forti davvero?

         Molti i felloni! Nominiamone solo qualcuno. Come il diamante si lavora solo con la propria polvere, così il sultano si venne persuadendo che solo servendosi degli stessi Albanesi,, avrebbe potuto abbattere finalmente Skanderbeg.

         Primo a tradire fu il nipote Mosè Thopia.

Conquistato dall’oro di Maometto, egli disertò per tornare da rinnegato capitano al comando di venticinquemila musulmani, contro lo zio e controla travagliata patria.

Scanderbeg gli uscì incontro con dodicimila esasperati albanesi, lo sconfisse, lo trasse prigioniero e…… gli perdonò.

          E’ vero che il perdonato si riabilitò poi combattendo con rinnovato fervore per la causa nazionale.

          Ed ecco il tradimento di un altro, Stresio, vendutosi per trenta mila argenti. Ma, prigioniero pur lui puntualmente.

          Terzo traditore fu Hamza, figlio dell’avvelenato fratello di Scanderbeg. Hamza era anche stimolato dalla moglie turca, residente a Costantinopoli.

          Presi in segreto gli accordi, fece anche costui – Hamza – il passo turpe. Maometto II, che lo apprezzava assai, lo proclamò addirittura re dell’Epiro ed alla testa di un esercito lo spedì fiducioso contro Skandebeg. Se non che questo terzo traditore è battuto. Esposto prima al pubblico ludibrio, è poi mandato in custodia nei sotterranei del Castelnuovo di Napoli.

          Ecco un quarto e desistiamo poi dalla enumerazione.

          Bellabano, figlio di un vassallo dei Castriota, trovandosi prigioniero, fu arruolato. Con rapide promozioni elevato a Sangiacco, è spedito pur lui da rinnegato spavaldo a capo di un esercito contro la propria patria.

          Skanderbeg puntualmente disperde gli assalitori e ne uccide lo spregevole capitano.

          Tra una battaglia e l’altra, il forte difensore della Croce si rivolgeva con insistenza ai re cristiani minacciati e soprattutto al papa, cui spedì inutilmente Zaccaria Groppa.

          Ricevette da tutti espressioni di alto plauso e promesse perfino di una crociata con lui – Skanderbeg – a capo. Gran desiderio questo di del papa Pio II°. Ma di positivo niente.

          Pio II°, umanista spregiudicato, era tutto preso dal fasto pagano, negazione in pieno del Cristianesimo buono. Indisse egli, è vero, una crociata, nel 1458, ed ordinò, per questo, anche un Concilio a Mantova. Qui, come riferisce il Villari, convennero settanta tra cardinali e vescovi e un gran numero di principi secolari. Ma non fu che una buona occasione per isfoggiare in impressionanti pompe mondane per le diverse città.

          A Firenze, scrive sempre il Villari nel Savonarola, il pontefice entrò sulle spalle di Galeazzo Maria Sforza e dei signori Malatesta, Manfredi ed Odescalchi…. e così a Ferrara ed altrove.

          Nient’altro.

          Era l’aria dei tempi. Tempi in cui, come ricorda il Cappelletti, si potè ritenere non disdicevole ilo collocamento delle Tre Grazie nude nella sagrestia di Siena.

          Tutto questo in antitesi coll’ingenua, sincera, fervida fede gelosamente cristiana degli eroici Skipetari.

          Il papa tornò a Ferrara l’anno dopo: e il Duca, per ingraziarsi con lui, ecco che lo accoglie alle sponde del Po in mezzo ad una corona di statue… pagane. Pio II° ringraziò in latino elegante incastonato di reminiscenze virgiliane: e sulla crociata in fiori …. si tirò un crocone.

          Questo.

E contro le grettezze e la scettica giocondità spensierata della Curia ha parole di fiera rampogna perfino Pompilio Rodotà, uno stimato dignitario della Repubblica Vaticana.

           Scettica giocondità pagana che emerse anche  nella scenografia costosa con cui in quel torno lo stesso Pio II accolse se a Ponte Molle, in mezzo ad un corto fastoso di cardinali, alcune reliquie inviate dal despota imbelle di Morea, per preservar1e dal sicuro scempio dell'avanzantesi Sultano.

 

********

 

           Scanderbeg, durante una tregua stabilita da pari a pari con Maometto, fu anche, di nascosto, a Roma nel 1466 ed abitò nei pressi del Quirinale – com’è ricordato   dal nome di una vicina strada. Fu acco1to dal nuovo papa. Paolo II, ma. non ebbe che parole di una notevole ammirazione, il titolo di "Defensor Fidei" e di “Athleta Christi”  e tre mila scudi.

 Tre mila scudi da1 capo della cristianità, mentre Maometto II, per non averlo nemico, avrebbe profuso l’oro a quintali….; Maometto di cui ricordansi le parole: Se Scanderbeg non fosse nato, io avrei messo il turbante sulla testa del papa. e la mezza luna sul Castel Sant 'Angelo.

 Giudizio probante questo come proveniente dalla bocca amara del grande avversario; giudizio che richiama, a  conferma, quello posteriore di Voltaire: “Se gl’imperatori greci fossero stati degli Scanderbegh, Costantinopoli non sarebbe battuta”.

 Ben inteso, tra parentesi, che non noi sottoscriviamo alla strapotenza  carlailiana degli eroi: la storia e il risultato di mille forze in atto che l'eroe può dominare e dirigere in qualche modo, ma non crearla dovesse mancano: e mancavano, lo sappiamo,  nella pettegoleggiante, infrollita. Bisanzio.

 Certo, non fu inutile alle persone trepide d'Europa che lo Scanderbegh, seguito dai suoi forti Skipetari, abbia contrapposto una, muraglia infrangibile al procedere di Maometto II bel periodo di azione più aggressiva. di questo grande Sultano, consentendo così che si venissero organizzando le resistenze da parte della insonnolita miope politica europea, paralizzata dalle gelosie.

*  *  *  *

Durante "L'ultimo convegno in Alessio, verso la fine del I467, Scanderbegh, nella pienezza dell'efficienza sua, ammalò gravemente (si parlò anche di veleno). Costernazione in tutti ed anche nei medici il cui intevento si chiariva inefficace.

La leggenda, che della vita di quel grande di era impossessata, l’accompagnò anche all’approssimarsi della morte.

Si riferì che l’Eroe, chiamato presso il letto il più valido dei parenti (il disgraziato suo unico figlio non contava che undici anni appena) gli ordinò:

- Fatemi condurre qui davanti un ttoro - një dem.

Fu obbedito. Ad un giovane parente:

- Mir maxieren time (lo spadone famoso ) e, d 'un colpo stacca il collo al toro.

Il giovane parente vi provò, ma  fu vano il colpo.

Con uno sforzo, l’agonizzante Eroe, ergendosi a mezza vita, , brandì il pesante spadone e, dopo averne baciata la croce, troncò con un colpo vigoroso il collo del toro.

Ahimè - esclamò, ricadendo esausto sul letto- glie maxieren po io crafun tim! (lascio lo spadone, ma non il mio braccio!)

Furono le sue ultime parole (11-6-1468).

*  *  *  *  *  *

Spirato l'Eroe, Lec Ducagini, come pazzo,  si diede a correre per le vie di Alessio: e tutti a stracciarsi le vesti.

Se non che - ed ecco un’altra leggenda riferita da Elena Ghika - i maggiorenti stabilirono di dissimulare il duolo della grande sventura per non incoraggiare l’avanzata del nemico.

         Fu così che in una battaglia subito dopo avvenuta, issando sul gran cavallo bianco la sagoma di un guerriero con le armi ed il pennacchio bianco del temuto leone di Kroja, decisero ancora una volta la vittoria della Croce sulla mezzaluna.

         Dopo la conquista dell’Albania che seguì rapida, i giannizzeri violarono in Alessio la Tomba dell’Eroe che li aveva tanto terrorizzati in vita per impadronirsi come talismano dei pezzetti delle ossa da portare a preservazione indosso.

         Morto Skanderbegh – riferisce Walter Scott a p.61 del secondo volume su Napoleone – Maometto II esclamò: “Ormai chi può impedirmi la sottomissione dei Cristiani? Hanno perduto la loro spada ed il loro scudo”.

         Dei Cristiani tutti? – Vanteria infondata, perché le nazioni europee si venivano destando, oramai pronte a fronteggiare il nemico comune.

         Ma la povera Albania – questa si – era destinata al crollo.

         Caduta Kroja, cominciò il doloroso esodo, specialmente dei ghieghi, albanesi del nord, più fieramente gelosi della propria indipendenza.

Quante accorate rapsodie. (2)

Eccone un brano toccante anche nella versione italiana:

 

 Tutta vestita in gramaglie

uscì una fanciulla dall’abitato

e andò a prendere la benedizione,

la benedizione dalla terra natia.

S’imbattè nel gelso nero e sospirando

Ne spezzo un ramo frondoso;

s’imbatte nel melo e sospirando

ne spezzo un ramoscello con le mele bianche;

raccolse poi molti fiori nel grembiule;

non poté più reggersi in piedi

e proruppe in singhiozzi:

Addio terra nostra, noi ti abbandoniamo!

Ma questi fiori avvizziranno, morranno,

non morra il nostro affetto per te,

moi e bukura More! (O bella Morea)

 

Un altro canto comincia così:

 

Glixan shpin me scertime

E u gramistin ndir suvagliat

Lasciarono la casa nei singulti

E si precipitarono tra le onde mosse.

 

Il Papa Paolo II lasciò scritto: " Non si può senza versare lacrime contemplare l’approdo di queste navi e lo spettacolo delle tante famiglie ignude, meschine che, scacciate dalle loro abitazioni, stanno sedute   sulla riva del mare e stendono le nani al cielo, facendo risonare l'aria di lamenti in ignota favella" .

I profughi   presero diverse direzioni; ma i più toccarono le coste calabresi, dove, per essi, sorsero e s'ingrandirono una cinquantina. di villaggi che furono in gran parte, prima bilingui a causa del nucleo etnico preesistente divennero in seguito - per la sana plusvalenza demografica dei sopraggiunti - ab integro albanesi, nella lingua, nelle vesti e nei costumi. Sentonsi però italianissimi ormai tutti.

Traiettoria storica conseguita beninteso attraverso un calvario.

I profughi albanesi, poveri ed angariati, in un primo tempo conobbero tutte le umiliazioni dello sfruttamento duramente perpetrato su di essi dai fratelli di Cristo che li ospitavano.

Nelle capitolazioni stipulate dai profughi di Firmo (facciamo una breve citazione per tutte) coi Dominicani di Altomonte (in provincia di Cosenza, nel 1503) leggesi: “ Per ciascheduno abitante in ditto terreno jornata una omne volta che saranno chiamati …. Et portare una gallina che faccia l’ovo, alli dritti frati, oltre le decime di omne animali selvatici e de porci domestici”.

         E’ ben vero che l’operosità degli sfruttati albanesi assicurò loro, dopo qualche secolo, l’incontrastata egemonia nei villaggi e l’ascesa ai diritti civili nella nuova patria, ma l’accedere fu un calvario. (3)

         Intanto ben presto s’impose il problema dei servizi del culto in quel divelto presso etnico irriducibilmente fedele al rito greco.

         Si dovette vincere la resistenza sorda ed ostinata dei vescovi latini; ma alla fine il buon senso ed il senso di comprensione della Curia l’imposero. E sorsero per la preparazione dei sacerdoti di rito greco pro colonie albanesi due Collegi seminari: uno a Palermo, l’altro in provincia di Cosenza, a San Benedetto Ullano, trasferitosi poi a San Demetrio Corone.

         Quest’ultimo divenne famoso per l’eccellenza raggiunta nell’insegnamento delle lingue classiche come famoso per i sentimenti liberali onde vibravano maestri ed alunni. Pertanto, persecuzioni dai re borbonici come poi lodi e sussidi da Garibaldi.(4)

Il fastoso rito greco permane ancora quasi invariato nelle colonie albanesi, i cui sacerdoti però, per inevitabile adattamento, dovettero fare atto di concordata sottomissione al capo, della cattolicità.

Da qui la loro denominazione di greci-uniti.

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Uno studio di facili ricerche dimostrerebbe come gli Albanesi poterono ben presto, nelle nuove terre, ripigliarsi, ed anche distinguersi per la grande resistenza agli ostacoli.

All'uomo di ferroche fu Sisto V  pulsava nelle arterie, per via della madre, il sangue albanese, ed a lui devesi il Collegio di Sant'Anastasio per la preparazione dei sacerdoti delle colonie albanesi.

Albanese fu Francesco Crispi il cui zio fu Rettore di un Collegio Italo-Greco in Palermo.

Il 15 maggio 1844 scoppiò in Cosenza. la rivoluzione contro i poteri del Borbone, rivoluzione che incoraggiò subito dopo l' intervento Ricciotti Bandiera.. Ebbene, la metà dei sollevati e poi incriminati e condannati erano albanesi.

Il 1848 li trova pure pugnaci e in gran numero nelle gole di Campotenese, dove comandante delle masse degli antiborbonici è un grande albanese, Domenico Mauro. Da Campotenese tre audaci albanesi: Francesco Tocci, Domenico Chiodi e Vincenzo Mauro, mossero audaci contro le baionette del generale borbonico Lanza. Arrestati, morirono gridando fino all'ultimo respiro: "Abbasso il borbone!".

Ho viva l'impressione del racconto che di tale morte facevami il venerando e benemerito Guglielmo Tocci in Cosenza.

Seguirono poi il scioglimento delle masse ed i processi presso la Gran Corte Speciale: e impressionante fu il numero degli albanesi relegati nelle isole.

Così anche nei moti posteriori. Ma io son qui per esaltare le virtù di un gruppo etnico oramai saldamente unito ed assimilato nel ceppo italico, e mi tarda di concludere (ho anzi molto abusato della vostra pazienza con la mia quasi digressione) sul conto del nostro eroe Scanderbegh.

Purtroppo la discendenza diretta di Lui non beneficiò della vigorosa e vittoriosa. plus valenza biologica. che ha caratterizzato in genere le famiglie Albanesi spinte violentemente in Italia, ma esse in terra italiana, si moltiplicarono valide e prestanti: muscoli e cervello .

Il figlio di Scanderbegh si ritirò nelle Puglie, dove il re aragonese aveva, per gratitudine, assegnato ricchi feudi alla famiglia Castriota. Se nonché i feudi ben presto furon dovuti devolvere alla Corona per mancanza di prole maschile diretta: ultimo duca, senza, figli, quello di S.Pietro in Galatina, di nome Giovanni.

Si direbbe che l'Eroe avesse esaurito in se -validissimo- anche la valenza fisica e morale della sua diretta. discendenza.

Ben inteso che si stentò a persuadersene: e ben molti riuscirono a farsi ritenere discendenti diretti, direttissimi del famoso Eroe. Uno, lestofante maiuscolo, riuscì ad emballer nientemeno che il famoso scaltro romanziere Dumas padre, che al seguito di Garibaldi nel 1860 trovavasi in Napoli....

Della eccezionale vigoria fisica del Castriota testimonia la grande, pesantissima corazza che Elena Ghika aveva ammirata al Museo Viennese e che recentemente fu donata al re Zogu I. La quale corazza ed il vigore di chi la portava in  guerra, ci porge l’occasione di riferire un ultimo aneddoto e avrò finito davvero intorno allo Skanderbeg.

Niccolò Piccinino, famoso condottiero, si trovò a Venezia contemporaneamente al difensore dell’Albania.

L’illustre capitano di ventura chiese al Doge del tempo (1465), Cristoforo Moro, di essere presentato al principe illustre che la serenissima, grata, festeggiava.

Nel vasto salone del palazzo ducale Skanderbegh torreggiava festeggiato.

Presentazione a lui del Piccinino: ed ecco che l’eroe albanese si avanza giovialmente, solleva tra le braccia il mortificato e tremebondo condottiero (tremebondo perché si era ad un finestrone), lo bacia e lo ripone giù in piedi delicatamente.

Gioconda meraviglia ed applausi. Applausi mentre poco dopo lo attendeva la morte in Alessio.

Skanderbeccu ai pa fan (senza corte).

Così lo cantarono i poeti.

Contrassegno fatale di vera grandezza anche questo. Anche lui come due altri schipetari – Achille ed Alessandro Magno- cadde tragicamente a missione incompiuta!

 

1) Barbagallo: Storia Universale

2) Margherita Tarocchi ha scritto Scanderbeide, lodata da Torquato Tasso.

3) Pompilio Rodotà, nel suo poderoso volume intorno al rito greco in Italia, tratta diffusamente delle Colonie albanesi acclimatate in Italia, soprattutto nella, Provincia di Cosenza, dove il principe di Bisignano imparentato con gli Scanderbegh aveva vastissimi feudi.

4) Rettore e professori, coi fremiti liberi del sangue albanese nelle vene, attesero costanti ad accendere nell'animo dei giovani l'aspirazione verso un'Italia civilmente redenta. Un funzionario della tirannia borbonica così riferiva al Ministro della Polizia in Napoli: “Il Rettore Elmo è pietra di scandalo politico nel Collegio di Sant'Adriano, perché egli colà - centro delle colonie albanesi che sono tutte liberali - riunisce le fila di tutti gli attendibili, tiene segreta corrispondenza con Cosenza e Napoli, e per le spese di questo genere devia le rendite di quel Collegio. E’ arrivato fino a dare asilo in Sant’Adriano ai tri patrioti Raffaele, Mauro e Vincenzo Sprovieri. Così ha reso il Collegio una fucina. di rivoluzionari. Egli difende i4 più efferati nemici del trono come Antonio  Marchianò, i fratelli Mauro, Luci di Spezzano, Damis di Lungro ed altri esecrabili" .

Agesilao Milano che in giorno solenne di rivista assaltò con la baionetta Ferdinando II di Borbone era albanese ed era alunno di quel Collegio, che il chiamava “covo di vipere e fucina del diavolo" .