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(1513) Finito il più bellicoso dei Papi lo imperadore Massimiliano sarebbe divenuto a qualche composizione, ma il più cuocente desiderio della Repubblica, essendo quello di far ritornare le cose come stavano prima della lega di Cambrai, pronta avrebbe distesa la mano a chiunque l'avesse aiutata a raggiungere questo unico ed arduo intento.

Il re di Francia gliela porse, dappoichè rimasto isolato in Italia, non avendo con chi altri collegarsi premuroso d'invadere la Lombardia la incoraggiava a resistere e poi strinse con i Veneti un trattato, obbligandosi appunto di concorrere a farle ricuperare quanto i collegati loro aveva tolto nel Lombardo e nella Marca Trevisana. Andrea Gritti prigioniero fin dalla disfatta di Brescia lo sollecitò, e lo sottoscrisse in Blois il 24 marzo 1513. Luigi XII combinò altresì col re Ferdinando di Aragona una tregua di un' anno alla guerra già cominciata su i confini della Spagna, e si allestiva a spedire in Italia millecinquecento lance, ottocento cavalli leggieri, e quindicimila fanti. Venezia assembrava ottocento uomini di armi, mille e cinquecento cavalli leggieri, e diecimila fanti. Bartolomeo Alviano ritenuto ancora lui prigioniero fin dalla battaglia sulla Ghiara d'Adda ritornato libero fu prescelto comandante dello esercito riunito.

Per premunirsi l'Alviano si chiuse in Padova, pose Gian Paolo Baglione in Treviso, e Renzo di Ceri in Crema, tutti punti forti da potersi reggere fino a quando i Francesi non arrivassero; in conseguenza Padova diventò la obbiettiva de' Tedeschi, i quali ausiliati da Don Ramondo di Cordova si disposero ad espugnarla. Dal 28 giugno al 16 luglio tribularonla colle falc.onette, ma non la domarono; per isfogo di rabbia, anzichè per vedute militari il Cordova si spinse a portare il fuoco fin sotto le mura di Venezia, collocandosi temerariamente tra due città nemiche, e con due fiumi alle

(1) P. Giovio Vita di Leone x. Lib, II. pag. 132. Guicciad Star. d'Ital. Lib. X. Cap. V. p. 614. Sism. op. cit. pag. 427 e 429.

spalle. Dopo fatta una bravata arrecando danno a Mestre, a Fusine, a Morghera sulle lagune, si rivolgeva indietro verso Vicenza. Scorgendo nelle mosse la ritirata degli Spagnuoli l'Alviano si appostò in Olmo sulla via di Verona, pose il Baglione in Monticchio in quella di Germania, colle artiglierie su i poggi più vantaggiosi; un gran numero di contadini armati di archibugi sulle rive dei fiumi e in tutti i burroni stavano preparati a fulminarlo. Il Cordova veduto il pericolo fece ardere una parte del suo bagaglio, rassegnavasi a perdere il resto onde guadagnare di traverso il sentiero di Bassano e di T'rento. Vi si accinse, allora gli Stradiotti al numero di mille presero a flaggellarlo di lato. I contadini esasperati dei maltrattamenti, e pei danni sofferti bene se ne vendicavano; gli spagnuoli fuggendo gran numero di morti lasciavano sul terreno reputandosi fortunati di raggiungere i confini. Sarebbe stato una prudente condotta il farli scappare, l'Alviano bene si opponeva, Ma Andrea Loredano Provveditore dello esercito lo persuase di inseguirli; e venire ad una decisiva battaglia. Ne avvenne che gli Spagnuoli incalzati alle spalle fecero un rapido cambiamento di fronte, per isventura i fanti romaguoli comandati da un Naldi da Brisighella, quantunque avessero fatto sempre buona figura in guerra, trovandosi primi a sostenere l'urto dei più valorosi soldati di quei tempi, sgominaronsi sullo istante, retrocedendo presero la fuga; questa insolita fiacchezza disordinò le altre file, e come suole avvenire fuggirono tutti. L'Alviano salvossi con molti altri dentro Padova, moltissimi perirono trucidati sotto le mura di Vicenza, la quale timida ed insieme ingrata loro chiuse le porte in faccia. Vi morì il Provveditore Loredano, i migliori dei Capitani veneti, quattrocento uomini d'armi, quattromila fanti, oltre a un gran numero di prigionieri. Per la ostinata volontà di un capo solo i Veneziani soffrirono perdite significantissime, depressione maggiore.

10.

(1513-1517) Dall'amicizia del re di Francia i Veneziani non ricavarono gran giovamento, imperocchè segnata la lega col re di Aragona non cessò la guerra con gli Inglesi e più che al suo predominio in Italia pensar dovea alla propria conservazione. Errico VIII fece traversare lo stretto di Calai da uno esercito voluto di ottantamila uomini più fanti che c;avalli; s'internò in Piccardia, di là tutta la Francia minacciava. Colpito dalla invasione quando credeva di averla frastornata Luigi XII pose in Sann Quintino duemila lance, ottocento cavalli leggieri Albanesi, dieci mila fanti Tedeschi, mille Svizzeri e ottomila fanti del regno (1513) (1). La città di Tornai venne a capitolazione, la misera. Terovana fu assediata. «Il Duca di Longueville che comandava lo esercito di Lodovico XII volendo introdurre soccorsi in Terovana, mandò il 16 agosto una mano di Albanesi a gettare nella fossa della Città alcune munizioni ch'essi portavano sul collo dei loro cavalli» (2). Ma a nulla gli valse non questo, nè quanti altri ritrovati escogitò per salvrrla; la piazza fu presa e perchè contendevasela il Duca di Gueltra e lo Imperadore Massimiliano entrambi decisero di farla demolire.

 (1) Guicciad op.cit.. Lib. XII. Cap. I. p. 69.

 (2) Sism. Stor. delle Repub. it. Cap. III pag. 464.

In attesa che i Francesi avessero potuto ingrossarsi l'Alviano con i soldati rimasti alla Repubblica non solo manteneva i punti occupati, ma sosteneva una guerricciuola alla spicciolata, e con i Tedeschi e con gli Spagnuoli; addestrava le reclute ad impugnare le armi, e a sprezzare i perigli, colle sue poche forz:e combattè a Portenone la prese e la fè saccheggiare, a Osopo tolse ai Tedeschi i bagagli e le artiglierie. Del pari Renzo da Ceri assediato in Crema lottò colla fame e colla peste, si alimentò foraggiando nelle sortite dalla piazza, e per una costanza rara di fronte al fato avverso nome si acquistò fra i più illustri capitani del secolo. Dal canto loro i Tedeschi e le bande dei partigiani occuparono Cromio e Monfalcone. Marano terra del Friuli dagli uni e dagli altri contrastata rimase al Tedeschi "I Veneziani se ne levarono quasi come rotti, e poco poi messi in fuga i loro Stradiotti fu preso Giovanni Vitturi loro Provveditore con cento cavalli" (2). Colla alternativa di prospere e infelici partite scorse l'anno 1514, senza fatti decisivi; gli stranieri venuti a trovar fortuna quasi dimenticati dal loro Principi rimasero inoperosi per lunghe stagloni, mancando di tutto, per sostentarsi dovevano depredare le campagne ed i paesi. La lotta tra lo Imperadore e la Repubblica era omai la sola, che agitava ancora l'Italia; avrebbe potuto finire con vantaggio di tutti e due i contenditori; a tale uopo si cooperò il Papa Leone X e come aveva fatto rinunziare lo scisma al re di Francia e lo prese a ben volere, riuscì a rendersi arbitro a fin di rimettere la pace, I Veneziani acconsentivano di perdere Verona, ma volevano almeno le castella di Gange e di Valeggio come punti forti intermedi dei loro possedimenti oltre Mincio. La desiata conciliazione sarebbesi portata a luce se il Vescovo di Gurk astioso di non esserne venuto lui a capo non avesse approfittato della poca fermezza del Papa con protrarla di tanto da farla svanire.

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La guerra dunque non finì, che anzi venuto a morte Luigi XII nel primo giorno dell'anno 1515, il successore Francesco I si decise di condurre i suoi battaglioni sulle pianure della Lombardia, rinnnvò colla Repubblica la precedente alleanza (27 gennaio) e nuovamente il fragore delle armi s'intese. In sulle prime i Veneziani non l'impegnarono positivi conflitti, imbrigliavano gli Spagnuoli dentro Verona, occuparono il Polesine di Rovigo. Calati poi i guerrieri di oltre alpi, onde congiungersi con essi dilungaronsi fino a Marignano sulla via tra Piacenza e Milano, Allora il Cordova, lasciando presidi nelle fortezze di Verona e di Brescia, si trasferì con settecento uomini d'armi seicento cavalli e seimila fanti in Piacenza a fine di spalleggiare gli ecclesiastici e i Fiorentini. Con la seguita concentrazione i Francesi, trovavansi a fronte di trentaquattromila svizzeri, quasi tutti a piedi arruolati da Massimiliano Sforza Duca di Milano, e uno esercito poderoso a tergo. Però l'Alviano passò l'Adice per la riva sinistra del Pò giunse contemporaneamente a Lodi con novecento uomini d'armi, mille quattrocento cavalleggieri e nove mila fanti.

Con tale mossa degna del più esperto capitano chiuse gli Spagnuoli in Piacenza, fece liberi francesi e Svizzeri di combattere fra essi la prima battaglia veramente campale dell'epoca. Suffragata dalla opportuna evoluzione

il re Francesco I si fe padrone del Milanese (14 settembre 1515). Vi morirono diecimila Svizzeri e cinquemila; Francesi; sgomentati dalla rotta i vantati

 

 (2) Guicciard.- st. d'Ital. Lib. XII. Cap. II. pag. 76.

 

campioni della Chiesa tumultuando contro al Cardinale di Sion loro Condottiero. domandarono le paghe per ritirarsi, in quel di Como presero a scorazzare. Il re non1 li fece inseguire per noli distrarre i Veneti dal tenere in suggezione gli Spagnuoli; ma quando si vide sicuro della vittoria permise allo Albanese Mercurio Bua nato in Drimade, paese che dal suo nome addita di avere soldati giovani e robusti, di tribolarli alle spalle, con mille Stradiotti e altrettanti Francesi e questi tanto li pizzicarono che " il resto passati i monti si ridusse alle loro case con volto diverso da quello con cui s'erano partiti" (1).

All'eco di si memorabile giornata i Veneziani mandarono quattro loro ambasciatori a congratularsi col re, e insieme a sollecitare i promessi aiuti, onde ricuperare le terre tenute dallo straniero nel Lombardo. N'ebbero settecento lance e settemila cavalli con Teodoro Triulzio a capo, e per la morte dello Alviano avvenuta di malattia nel bresciano anche i Veneti al di lui comando vennero affidati; poi vi si unirono tutti gli altri Francesi già dispersi nella Lombardia con Odetto di Foix nominato Luogotenente del re di Francia in Italia. Tutte le mire stavano rivolte intorno a Verona e Brescia, Triulzio e Odetto portaronsi sotto di questa ultima con i Veneti e gli Stradiotti (2). Quelli di dentro sortirono, accapigliaronsi con eguale successo, la battaglia non fu decisiva, ma essendoli venuto fatto di occupare la Rocca d'Anfo i Tedeschi rifiniti dalla partenza degli Svizzeri si dissiparono, Brescia non potendo più resistere aprì loro le porte nel 24 maggio 1516. Avrebbero potuto arrendere Verona, ma Odetto di Foix sicuro che le trattative in corso tra i potentati erano tutte rivolte alla pace, onde in breve sarebbe stata bonariamente ridonata, non volle prenderla di assalto. Di fatti il re Francesco I oltre a un concordato colla Santa Sede e una convenzione con l'Elvezia sottoscrisse col re Ferdinando il cattolico il trattato di Noyau (13 agosto 1516) col quale rimaneva libero di soccorrere i Veneziani, salvo se lo Imperadore Massimiliano avesse voluto parteciparvi: in questo caso Verona doveva essere ceduta ai Veneziani, ai Tedeschi Riva di Trento Roveredo, in generale tutti gli acquisti fatti nel Friuli, e un compenso di dugentomila ducati.  

Indispettito lo Imperadore di tal convenio corse alla sua insaputa, di bel nuovo tentò la sorte delle armi. Guidò in Italia uno esercito di sei mille cavalli e venticinquemila fanti Alemanni e Svizzeri, con lui si unì Marcantonio Colonna colle genti sue. I franco-veneti ben prevedendo che l'osta nemica non poteva per lungo tempo reggersi in campagna coprirono le fortezze, qualunque conflitto schivarono. I Tedeschi perderonsi lungo tempo sotto il castello di Asole, poi arsero Peschiera, il Colonna entrò in Lodi; lo Imperadore medesimo si avvicinava a Milano, ma quando si doveva impegnare la battaglia decisiva gli Svizzeri dinegaronsi di. combattere contro i loro connazionali militanti nelle file francesi; lo Imperadore stimò conveniente di ritirarsi, dietro di lui lo esercito si sciolse. Marcantonio Colonna scorgendo il mal partito si trasferì in Bergamo, e di là affrettossi a ritornare a Verona, dove arrivò non poco molestato da Mercurio Bua con gli Stradiotti, e da Baldassarre Signoretti con duecento cavalli, i quali più volte lo molestarono e di lato e di spalle{3). A questi avvenimenti lo Imperadore accettò il trattato di Noynn, facendo cessione motivata di quella città al re cattolico, per la qual cosa il Vescovo di Trento nel dì 23 gennaio 1517 ne aprì le porte al Signor di Lotrecco, e questi a volta sua ne consegnò le chiavi ad Andrea Gritti. Venezia tripudiò l'ultimo atto, che arrestava le ulteriori conseguenze della funesta lega di Cambrai.

 

(1) Murat. Ann. di Italia. vol. VI. pag. 82.

(2) Guicciard. Stor. d'ltal. Lib. XII. Cap. IV. p. 118.

(3) Murat. Ann. d'ltal. Tom. VI. pag. 88.

 

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(1517) La Repubblica veneta fiaccata nelle sua potenza marittima, estenuata dalla travagliosa , e lunga lotta interveniva nei concerti degli Stati non primeggiando più sui campi nè sul mare. Nel contempo anche gli Albanesi al di lei servizio andavansi dileguando; non già, come alcuno disse, che musulmani o cristiani erano sempre Albanesi, e la Signoria disgustata loro permise di passare al servizio del re di Napoli (1). Per essi non finì l'attività guerresca da cui traevano anima e vita, mentre alcuni seguitarono a militare al soldo dei Veneziani, altri li vedremo or sotto di uno, talora, sotto di un'altro dei potentati, i quali sollevando incessantemente le loro contese spesso alle armi scendevano, e fra tutti vi era più propenso chi meno l'avrebbe dovuto.

Volendo il Papa Leone decimo investire il nipote Lorenzo de Medici della Duchea di Urbino la tolse a Francesco Maria della Rovere, nipote del predecessore Giulio secondo, il quale sebbene decaduto nella possanza non cessava nella speme di rivendicarla in tempi migliori. La occasione gli si porse tosto, poichè ritirati i Tedeschi dall'Italia, cessata la guerra della Repubblica le soldatesche licenziate, per bisogno e per abitudine dati al mestiere delle armi andavano in cerca di padroni e di avventure. Fu allora che Federico di Bozzolo già capitano del partito francese nemico di Lorenzo de Medici arruolò da cinquemila fanti spagnuoli col colonnello Maldonato, ed ottocento cavalieri in gran parte Albanesi comandati da Andrea Bua e Costantino Boccali (2) e con questi già sperimentati guerrieri si mosse a riconquistare per conto della Rovere la patria dello immortale Raffaello, e dello insigne Bramante, non altro avendone avuto che la promessa di un futuro compenso. Senza un parco di artiglieria, non portando bagaglio, a fronte scoperta assaltarono la città, combattendo da prodi se ne impadronirono; Lorenzo de Medici più interessato a difenderla gravemente ferito vici110 a. soccumbere da pochi suoi più fidi amici fu trasportato in Ancona. Compiuta la riconquista il della Rovere ben poco la tenne, la gente d'armi mancante di provvisioni e di paghe si diè a rubacchiare per la Toscana, un Gino Paolo Buglione passato al servizio della Repubblica fiorentina per farla sgomberare dal territorio di Perugia le fè sborsare diecimila ducati; non però transitarono in quello di Siena in cerca di vettovaglie, e tutto il danneggiarono.

Il Mediceo non se la tenne, raunando armi basche e  teutoniche al comando del cardinale di Bibbiena suo nipote fè ogni possa onde ripigliar la Duchea, ma allora la riebbe quando vi si mediò il re di Francia, facendogli sborsare tutte le paghe maturate al piccolo esercito raunato dal contendente, ed assolvendo dalle censure ecclesiastiche il della Rovere, e quanti lo avevano seguito.

 

(l) Pouq. Voy. de la Grec. Tom. III. pag. 282.

(2) Guicciard. ope. cit. Lib. XIII. Cap. I. pag. 133. Siam. ope. cit. Lib. 103. pag. 4.99

 

(1523-1529) A capo di non molti anni anche i due più potenti coronati del secolo, Carlo V e Francesco I, val quanto dire la Spagna e la Francia, seguiti entrambi da poderosi eserciti si disputarono a palmo a palmo il conquisto di Lombardia. Nelle file dei combattenti a favor del primo ben si distinse quel Mercurio Bua di Drimade per noi già nominato, in allora posto a capo dei cavalleggieri veneti, del pari gli altri due capitani di Drimade anch'essi, Giovanni Bacilli, e Cristoforo Nina (1). Più osservato dagli storici fu quel Ferrante Castriota Marchese di Sant'Angelo penultimo discendente di Scanderbegh, il quale nella seconda discesa del re di Francia al di qua delle alpi nella battaglia di Pavia nel dì 24 febbraio 1525, guidava le artiglierie del Duca di Milano collegato con Carlo quinto, Fu il primo ad avvedersi del passaggio dei nemici sul Ticino, e nella mischia restò ucciso dalla mano istessa del re francese (2). La battaglia di Pavia menò grande strepito dall'esservi rimasto prigioniero il medesimo re Francesco primo, e molti dei più notabili signori della Francia con grande numero di guerrieri estinti. Invano le combinate alleanze dei Francesi, degli ecclesiastici, de' Veneziani si opposero ai progressi dei vincitori; lo esercito da costoro assembrato al comando del Duca di Urbino corse mai sempre ad affrontare gli avversari, ma per fatalità o imperizia non li attaccò mai. Per fino Roma fu saccheggiata da Spagnuoli e Tedeschi, Clemente settimo prigioniero in Costel Sant' Angelo provò il frutto più amaro spettato ai Papi dal tanto prediletto porre temporale. A nulla giovò che i re di Francia e d'Inghilterra, le Repubbliche di Venezia e di Firenze, i Duchi di Milano e di Ferrara, ed il Marchese di Mantova si fossero stretti in lega (1527), onde guerreggiare gli Spagnuoli nel regno di Napoli, a qual fine i Veneziani occuparono Trani Monopoli e Polignano, facendovi stanziare gli Stradiotti rimasti a loro servizio. Alla fin fine per la pace stabilita, vogliasi a caso o no, in quella stessa città di Cambrai in dove la tanto funesta lega erasi combinata, dovettero retrocedere loro malgrado Ravenna e Cervia al Papa, i porti dello Adriatico allo Imperadore. Ottennero lo assoluto perdono a tutti coloro che li avevano serviti; del pari i Veneti perdonarono i loro sbandati, assegnarono delle provvisioni ai più meritevoli, contribuirono alle spese di guerra, per ultimo obbligavansi a garentire tutti i nuovi possedimenti da Carlo quinto conquistati (1529) (3). Allora gli Stradiotti della Repubblica presero servizio con diversi potentati coi nomi di Cappellotti e di Stradiotti fino allora portati, e poi assumendo quello di Macedoni, di Camiciotti distinguendosi per la loro tunica, come si erano distinti per la speciale copertura del capo (4).

 

(1) Guicciard, ope. cit. Lib. XV. Capo VI. pag. 214. Summ. Stor. di Napoli Tom. IV. Lib. VI. pag. 37.

(2) Guicciard. op. cit. Lib. XV. p. 262. Lib. XVII. p, 427. Dor. Riser. e pens. Cap. XV. p. 3.

(3) Sism. Stor. delle Repub. ital. Cap. 120. p. 673. 

(4) Guicciard. ope, cit. I..ib, XIX. Cap. I. pag. 530.