Pier Giuseppe SAMENGO (1825 - 1904)

 

Nacque nel 1825 a Lungro da Antonio e Margherita Molfa. Le ottime condizioni economiche familiari (il padre, di origine genovese, aveva avuto nel 1811 la concessione per lo sfruttamento della reale salina di Lungro), gli consentirono di studiare presso il Collegio Italo-Albanese San Adriano e, successivamente, di frequentare con ottimi risultati la facoltà di giurisprudenza della reale università di Napoli, dove si distinse per le grandi capacità.

Entrato in contatto con il movimento carbonaro della capitale, tornato nella natia Lungro, fu tra i promotori delle sommosse sociali scoppiate nella Calabria citeriore.

Partecipò, a fianco del Mauro, alla battaglia di Campotenese e al conseguente assedio della città di Castrovillari, e, successivamente, prese parte alla spedizione del Volturno. A causa della sua attività politica, fu condannato al soggiorno obbligato a Lungro dal 1854 al 1860.

Tra i primi a rispondere alla chiamata di Garibaldi, partecipò attivamente alla liberazione del Sud Italia dalle truppe borboniche. L'unità nazionale gli consenti di riprendere attivamente la propria professione di legale, prima, e magistrato poi, fino a raggiungere il grado di Primo Presidente della Corte d'Appello di Calabria citeriore. Ricopri lo stesso delicato incarico a Roma, dove, nel 1904, mori.

 

LA REAL SALINA DI LUNGRO

( Il Calabrese – 30 giugno 1845)

 

 

Tra le multiplici miniere che di preziosi prodotti fecondano il seno delle montagne Calabresi, quella che per la sua importanza e rarità ha mai sempre occupate le menti de’ più dotti naturalisti ed antiquari fu senza dubbio la Real Salina di Lungro. Rovistando gli scritti di coloro che di essa o a proposito o per incidente han fatto menzione, trovo che l’origine della sua scoperta s’involve nell’oscurità dei tempi, e che il primo a parlarne fu il Barrio sendo interamente falso ciò che il Marafioti rapporta di Plinio, giacchè per quanto diligenti ed accurate, sono state le ricerche in quell’autore altrettanto vane ed infruttuose riuscirono. Il Mastriani spinse ancor più in là una tal nuova, e sull’appoggio non so di quali documenti non ha guari asserì nell’eccellente dizionario da lui diretto che se ne avea conoscenza prima dell’era volgare. Che che ne sia di queste opinioni egli è certo però che una Miniera di Sal montano nella contrada Braellum si smemorava sin da quando tra gli sfasciumi della romana possanza sorgeva quel prodigioso Medio-Evo, che il Muller con tant’acutezza chiamò i secoli del merito ignorato. Nata coeva adunque con quell’arte magnifica che i Vandali crearono non può dirsi per altro un monumento di architettura gotica, romana o greca, ma un ammasso bastardo di tutt’esse insieme, una sfinge architettonica orrenda, che ha la testa dell’una, la schiena dell’altra, le membra di una terza, qualche cosa di tutte. Non pompeggia sulla cima di un monte come i templi famosi della Grecia, non tra l’ombra de’ mirti e degli allori come i sacri delubri dell’Asia, ma pari alle deformi pagode dell’Indostan scavata nelle profonde viscere della terra ha pure un non so che di grande e di tristo, di solenne e d’oscuro in cui l’uomo può nascondersi e pensare. Di fatto i viaggiatori, massime i poeti, traggon sovente ad ispirarsi in questi sotterranei come tra i monumenti di S.Croce il Genio di Vittorio Alfieri, o nel Poel’s corner dell’Abbadia di Westminster Walter Scott e Moore. Ma chi con l’anima di un assiderato naturalista intendesse descrivere per filo e per segno questa Miniera imprenderebbe lo stesso assunto di colui che giudicar volesse la Divina Commedia senza il mistico velame dell’Allegoria, o il complesso delle Belle Arti senza il Simbolo ch’è il più gran mezzo di creazione che ha l’artista, siccome profondamente e per la prima volta osservò un valoroso ingegno calabrese. Di leggieri si comprende adunque che lo scrittore anzicchè perdersi in una minuta descrizione degli asci e delle gallerie, dee studiarsi invece ad esprimere le sensazioni e i sentimenti ch’essi spirano a’ riguardanti, altrimenti la sua fantasia come la notte tingerà di un solo e cupo colore tutti gli oggetti. Ma chi farà mai questa traduzione del pensiere ch’è il libro più difficile a farsi a parer mio? E’ mestieri saper ad un tratto osservare, sentire ed esprimere; e come esprimere? Non con le linee, non con tinte come il pittore cosa facile e semplice; non con suoni come il musico; ma con parole, con idee che non racchiudono né suoni, né linee, né colori. Michelangelo, il gigante che tinse nell’onda delle immagini Dantesche il suo pennello di fiamma, ei soltanto con la vastità della sua mente abbracciar potrebbe il solenne ed il terribile di questo molteplice edificio. Sembra che le arti, massime le tre celesti sorelle, architettura pittura e poesia abbian qui eletto il loro soggiorno per rivelarsi all’occhio attonito de’ mortali sotto un aspetto più sensibile e meno vago. Infatti la prima tra le gallerie, che varcato il corridoio d’ingresso e il Sopracielo, si para alla vista di chi vi si fa dentro è un modello, direi inimitabile, di greca architettura in tutta l’armonia e la sublimità delle sue parti. Il Partendone tempio dei templi eretto da Setino, fregiato da Fidia, devastato dalle navi britanniche, mutilato dagli agenti di Lord Elgin, e quasi affatto distrutto dallo scoppio dell’artiglierie sotto il Morosini, par che riviva intero in questa galleria, come un tempo il secolo di Pericle nel Partendone.

I Propilei, il tempio di Erocteo, o quello delle Cariatidi, che stavano allato di questo monumento della grandezza di  popolo artista per eccellenza, possono eziandio raffigurarsi nelle gallerie che fan corona all'altra così detta Speranza 2a,  la quale mirabilmente rappresenta un tempio di gotica struttura. Quegli archi di sesto acuto suffolti da immani colonne riposanti al suolo senza lo zoccolo e ignude d' ogni fasto architettonico; quel tono svariato di fantastica luce che bellamente si attempera a quella cupa irradiatura che tanto sa di religiosa mestizia; quei bruni muraglioni infine che paion sfuggire all’ammirazione di li contempla per nascondersi in quel buio, che li circonda come di un velo aereo misterioso, infondono nell’anima malinconia grave e solenne, pari a quella che prova il viaggiatore entrando sotto le antichissime volte della Cattedrale di Milano, o della chiesa di S. Stefano in Vienna –L’anima  però colpita  da una scossa troppo vigorosa all’aspetto di queste gallerie non sente nel mirare e rimirar le altre che un piacer negativo, o un’estasi momentanea sino a che visitate le Amendolette, e perigliando di balzo in balzo, non si giunga nell'Ascio Bruno Venere, dove una mano invisibile par che ti respinga indietro, dove un Manfredi novello par che evochi il Destino le Fate, i Geni, e tranne  una Dea -la Speranza – tutti gli spiriti d’Averno. Dirupandosi quindi come per lo pendio di una montagna per una scala di pessima costruzione e già crollante si discende alla galleria denominata Fossa inferiore; la quale è una viva rappresentanza dell'Inferno Dantesco, siccome questo lo è in parte del mondo fisico e morale.

Oscura, profonda era e nebulosa

Tanto, che  per ficcar lo viso al fondo

L’non discernea veruna cosa.

Ma se uno sprazzo di luce solcando l’aria oscura e nebbiosa viene ad illuminare per lungo la vasta scena che ti si para dinnanzi agli occhi, tu non scorgerai altro che voragini, abissi e sterminati valloni d’acque; massi enormi di barda che ad ogni urto, ad ogni scossa minacciano rovina; precipizi immensi sospesi sulla testa, precipizi orrendi aperti sotto i piedi: infine osservavasi indifferenza, rimasi muto e insensibile, inabissato nella contemplazione dell'insieme e ne' mille pensieri che sorgono da ogni pietra, da ogni avanzo - E' questa la parte più intima e profonda della Miniera - il resto non merita la parola che lo descrive. Shakespere, Crebillon, Hugo con tutto l'orrendo apparato delle loro scene non renderanno mai il tetro colorito, le forti commozioni, e l'impronta del grande e del terribile de' quadri che qui ti si presentano ad ogni piè sospiuto. Qua una serie non mai interrotta di gallerie deserte, abbandonate, ravvolte in buio perenne, e ammonticchiate le une sulle altre quanto l'occhio può salire; là un caos scorrente di sale di ogni forma, d'ogni grandezza buttato accavallato nel disordine il più bizzarro e il più maestoso; più in là una vastissima aia tutt'adorna e accesa come sala di teatro in di di festa; ed archi e stecconati e piramidi e colonne e pareti intagliate a cesello, nelle quali, come in un prisma solare si riflettono in mille e diversi colori i raggi riverberati de' lumi sospesi in ogni viottolo e in ogni chiassetto della gran Miniera; e tutta questa immensa e confusa congeria di mura, di tetti, di spiragli, di cammini stivata sparpagliata campata in aria come l'ali immani attaccate al corpo di un immane augello; e tutto questo bacino irregolare solcato e risolcato per tutti i versi e in tutte le guise a scompartimenti, a gironi, a triangoli, a ghirigori; e per questo andirivieni, e per questi intralciamenti, Impiegati, Capi e Sotto Capi, che s'incontrano e s'urtano a tutt'ore aprendo e rimprocciando una moltitudine rimescolata d'uomini, di fanciulli, di vecchi e giovani travagliatori che a maniera di un pelago tempestoso rotto tra innumerevoli scogli or va ora viene ora scorre ora stagna e sempre spuma e gorgoglia; e il rotolar dei massi che rovesciano lungo il vano de' precipizi, i colpi di martello de' minatori, il brulicare degli operai, i lamenti de' feriti, il fruscio delle pedate, il rimbalzo de' pavimenti, il rimbombo de' sotterranei, e tutte queste voci e tutti questi rumori frequenti, sonori, animati ti fremono, ti oscillano d'intorno come un sol grido lungo eguale continuo. Gli occhi restano incerti e abbagliati, le orecchie intronate, il viso diventa smorto e il pensiere, quasi Laooconte novella, rimane avvolto tra le spira inestricabili di questo inestricabile laberinto. Con quel devoto raccoglimento con cui l'italiano calca la polvere del Colisseo vaghi l'intero giorno fra queste rovine, e ti ritiri collo sguardo incantato da forme e da colori, pieno il cuore di memorie e d'ammirazione, ma non senza un desio di ritornare. Volte le spalle a mar si crudele, e in veder nuovamente quelle amene circostanze frastagliate di selve e di pasture, di vigne e d'oliveti ti par d'essere in una regione più elevata ed aerea; che più fresca e rugiadosa è l'aurea che ti lambisce il viso, e più lieto e libero su pei camp celesti par che danzi il sole, cui, di divina bellezza sfolgoranti, ratti corrispondono un riso la terra e il mare - mentre pei boschi e le foreste intorno erra un fremito arcano ed indistinto quasi un'eco remota dell'ancora oscillante parola della creazione, o quasi un inno festante che al Pensier Supremo mandi Natura.

Si è detto che a questo stabilimento vada Lungro debitrice della sua agiatezza e del primato che essa gode sopra tutti i villaggi albanesi, ed io nol nego. Ma dico ancora che l'agricoltura, che altre volte sforzò questo suolo a metter fuori i suoi tesori, ora languisce, appunto perchè il villico sedotto dagli eventuali e momentanei vantaggi de' minatori gitta via sui campi la marra e il badile, ed avventandosi con un grosso mazzapicchio tra gli errori di queste oscure latebre abbandona quella terrà che non meritò mai il nome di matrigna.*  Il Commercio, a dir vero, però avuto almen riguardo alla posizione topografica del paese che è in uno stato floridissimo come ne fan testimonianza i suoi numerosi mercanti; i quali senza possedere un becco di un quattrino rizzano dapprima su per le pubbliche strade una certa specie di frascato o catapecchia, dove somministrando bubbole, bei bocconi, e squisiti centellini agli avventori, cavano dallo scotto le spese e qualche zaccherello di vantaggio: poi co' quattrini facendo quattrini giungono a fornir di merci una bottega, e tu li vedi di giorno in giorno mettesi sempre più in tono, e spacciarsi piuttosto ricchi sfondolati. D'altronde una tal genia è tutta robba del medesimo stampo, e questa lebbra d'interesse par che ammorbi oggidì in tutta la sua estensione l'attività sociale, in dodo da farci vie maggiormente confermare il quel pensiero antico; che i trafficanti cioè, e non i letterati han comodi e dovizie in questa terra.

 

* La risposta del De Marchis (Lungro -1858):

"E mi cade qui il destro di chiamare a breve esame l' opinione di coloro, i quali in vece di benedire l’eterna provvidenza per l'impartito dono della  Miniera, senza di cui Lungro lungi di una prospera progressione , sarebbe rimasto nella primitiva condizione di oscuro Casale , si sforzano a sostenere, che essa apportò piuttosto male, che bene al Comune, per aver distolto gli abitanti dall’Agricoltura , proficua sorgente di ogni vera e reale comodità.

La salina in ciascun anno eroga uno spesato di circa due. ventiduemila, quale somma si espande per intero nel paese, come benefica rugiada diretta al sollievo della popolazione, e gli stessi impiegati ivi spendono i loro soldi tanto per sostentamento personale , che per pigioni di casa , e in altri oggetti di lusso.

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Ora se la salina non fosse esistita , oppure esaurita a dischiuderci i suoi tesori, ed i cittadini astretti solo ad occuparsi  alla coltura dei fondi, il Comune ben lungi dallo slancio progressivo, in cui si ritrova , gemerebbe senza dubbio nella miseria, ed una pruova di fatto l'offrono a noi i contermini paesi, i quali vivono o stazionari, o decrescenti nei loro abitanti a malgrado dell'esteso, e fertile territorio che posseggono, e con cittadini quasi tutti intenti all'agricoltura. In essi le abbondanti raccolte cadono nelle mani di pochi proprietarii , e la generalità sempre bisognosa, non vive in quell’agiatezza che dovrebbe, perché nessun'altra risorsa secondaria vi concorre a mitigare la squallida inopia.

Non è dunque la ricchezza ristretta nel possesso di pochi, ma l’utile diffuso nella generalità, che anima, e seconda l’incremento degli abitanti, ed io preconizzo da ora, che se la salina continuerà a rendere......"